“Il cuore mi ha spinto a scrivere la mia storia. La voglio vedere scritta e voglio leggerla dall’inizio alla fine come se fosse quella di un altro. Credo che solo così mi libererò da quel peso che sento nel cuore per le stalagmiti della mia vita. I cristiani dei primi tempi si confessavano con voce forte davanti a tutti e il popolo li perdonava; alleggerivano il loro cuore così. Perché sia le colpe che le disgrazie sono la stessa cosa. Le colpe non sono altro che disgrazie.” È la voce di Markos Vamvakaris, il patriarca del rebetiko, il genere musicale diventato colonna sonora identitaria dei Greci. È il linguaggio di una grecità eccentrica, esule, meticcia, contaminata dall’humus ottomano. L’ellenismo orientale del rebetiko, striato di francesismi, parole italiane e turche, fa propria la cultura dell’oppressore con gagliardia perché la Grecia è sempre stata sul crinale fra Occidente e Oriente, apollinea e dionisiaca, europea ed anatolica, un capolavoro di civilizzazione fatta di valori come la bessa (μπὲσα) e la tolleranza verso il diverso. Il Rebetiko è una musica meticcia per eccellenza che nasce nei porti e nelle città. Nella sua continua contaminazione è rimasta però fedele alla sostanza dei suoi temi: l’eros e le disavventure della vita. È una litania della miseria urbana, una lirica del sottoproletariato che nasce al buio della notte e si esprime al chiuso delle taverne, dentro locali equivoci, carceri e angiporti, fra vino e hashish; si balla senza sorridere e si consuma come uno stordimento dei sensi, fino all’ultimo bicchiere di rakì. “Voci dal Pireo” é un racconto musicale che si addentra nella vita dei grandi musicisti del Rebetiko: Vamvakaris, Papaioanou, dei loro maestri profughi dell’Asia Minore come Giovan Tsaous, Skarvelis, Peristeris; della cantante armena Rita Ampatzi e dell’ebrea Rita Eskenazy. È un incontro con l’ ipocosmo, il sottomondo degli emigrati, dei profughi, dei gay, dei travestiti, della prigione, dei ladri e dei fumatori di hashish. |
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